Negli ultimi anni, il giornalismo ha conosciuto una profonda evoluzione non solo nei mezzi e nelle tecnologie utilizzate, ma anche nel modo in cui le storie vengono raccontate. Una delle tendenze più evidenti di questa trasformazione è la crescente diffusione dello storytelling in prima persona, in cui il giornalista non si limita a osservare e riportare i fatti, ma si inserisce nel cuore del racconto, ne diventa testimone diretto, parte coinvolta, talvolta protagonista assoluto. Questa forma di narrazione rompe la tradizionale distanza tra cronista e storia, creando un legame più intimo tra chi scrive e chi legge.
Quando il giornalista è parte della notizia
Il giornalismo classico ha sempre promosso un’idea di oggettività, in cui il reporter doveva restare invisibile, mantenere la distanza emotiva e raccontare i fatti in modo neutrale. Tuttavia, questa visione è stata messa in discussione da un nuovo approccio narrativo, che riconosce il valore dell’esperienza soggettiva come chiave per comprendere la realtà più a fondo.
Il giornalista, immergendosi nella storia, vive sulla propria pelle ciò che racconta. Può trattarsi di un’inchiesta sotto copertura, di un reportage in una zona di conflitto, di una testimonianza personale legata a un fatto di cronaca o di un viaggio in cui l’autore osserva e riflette. In tutti questi casi, l’“io” narrante non è un vezzo letterario, ma uno strumento di immersione, autenticità e connessione emotiva con il lettore.
L’esperienza come fonte di verità
Quando il giornalista si mette al centro del racconto, la narrazione cambia tono. Non si limita a descrivere cosa è successo, ma racconta come lo ha vissuto, quali emozioni ha provato, quali dubbi ha affrontato. Questo tipo di approccio, spesso definito anche “giornalismo immersivo”, rende la lettura più coinvolgente, più umana. Il lettore non solo riceve informazioni, ma compie un percorso emotivo, si immedesima, partecipa.
L’“io” del giornalista diventa quindi un mediatore di significato. Non pretende di rappresentare una verità assoluta, ma offre una prospettiva concreta, filtrata attraverso la propria esperienza. In tempi in cui la fiducia nel giornalismo è messa alla prova dalla disinformazione e dalle notizie artificiali, questo tipo di storytelling rappresenta anche un atto di trasparenza: l’autore espone il suo punto di vista, dichiara il proprio coinvolgimento, mostra la propria vulnerabilità.
Dove si usa questo stile narrativo
Lo storytelling in prima persona è particolarmente diffuso nel giornalismo narrativo, nei podcast, nei reportage multimediali e nei documentari giornalistici. È molto utilizzato anche nei blog di viaggio, nei pezzi d’opinione, negli articoli di approfondimento culturale o sociale.
Un esempio emblematico può essere un’inchiesta in cui il giornalista si finge lavoratore stagionale per documentare le condizioni del lavoro agricolo. Oppure un reportage personale sul sistema sanitario, vissuto da chi ha avuto bisogno di cure urgenti. Anche la copertura di eventi politici o manifestazioni può essere raccontata dal punto di vista del giornalista presente sul campo, descrivendo reazioni, paure, interazioni, impressioni immediate.
Pregi e limiti di un approccio soggettivo
Lo storytelling in prima persona ha diversi punti di forza. Prima di tutto, cattura l’attenzione. In un panorama mediatico affollato, dove le informazioni si moltiplicano e i lettori sono distratti, una voce personale riesce spesso ad emergere, a farsi notare. Inoltre, questo stile favorisce l’empatia e rende la narrazione più accessibile. Quando il giornalista racconta ciò che ha visto con i propri occhi, il lettore si fida di più, sente che le informazioni sono vere perché vissute.
Tuttavia, non mancano i rischi. Il primo è quello della soggettività eccessiva, che può far perdere di vista il contesto generale o portare a un racconto autoreferenziale. Il secondo è quello della drammatizzazione, ovvero l’inserimento forzato del giornalista nella storia per renderla più sensazionalistica. È importante ricordare che la narrazione in prima persona non deve mai diventare spettacolo, ma restare al servizio dell’informazione.
Per evitare questi pericoli, il giornalista deve mantenere sempre un equilibrio tra coinvolgimento personale e rigore professionale. La prima persona non deve cancellare l’inchiesta, ma arricchirla. L’“io” deve servire a illuminare meglio il “noi” della collettività.
Un nuovo rapporto con il pubblico
Lo storytelling personale riflette anche un cambiamento nel rapporto tra giornalista e pubblico. Il lettore contemporaneo non cerca solo notizie, ma anche relazioni. Vuole sapere chi scrive, da dove viene, che percorso ha fatto, quali convinzioni lo guidano. Questo spiega perché molti giornalisti oggi sviluppano anche una voce pubblica sui social, costruiscono un legame diretto con i lettori, rispondono ai commenti, condividono momenti del proprio lavoro.
In questo contesto, raccontarsi in prima persona non è solo una tecnica narrativa, ma anche una forma di responsabilità e trasparenza. Il giornalista che si mostra umano, che ammette i propri limiti, che si espone, costruisce fiducia. E la fiducia è, oggi più che mai, una delle risorse più preziose nel campo dell’informazione.
Conclusione
Lo storytelling in prima persona è uno degli strumenti più potenti e delicati a disposizione del giornalista contemporaneo. Permette di raccontare storie complesse in modo autentico, coinvolgente e umano. Trasforma l’esperienza personale in chiave di lettura collettiva. Ma richiede anche attenzione, rigore, etica.
Il giornalista che sceglie di mettersi in gioco nel proprio racconto deve sapere che ogni parola ha un peso. Non si tratta solo di dire “io c’ero”, ma di rispondere alla domanda “perché racconto questa storia?”. Solo così l’esperienza individuale potrà diventare testimonianza, informazione e servizio pubblico.
In un mondo che cambia in fretta e dove le verità sono sempre più frammentate, il racconto in prima persona ci ricorda che dietro ogni notizia c’è una voce. E quando questa voce è onesta, preparata e consapevole, può ancora fare la differenza.